Ing. Michele Vio: Corona Virus e Impianti di Climatizzazione
APPROFONDIMENTO TECNICO: NON SONO GLI IMPIANTI RESPONSABILI DELLA DIFFUSIONE DEL VIRUS NEGLI OSPEDALI
Non pubblico mai post pubblici, ma questa volta è necessario.
Mi vedo costretto quindi a spiegare che faccio nella vita: i miei amici mi perdoneranno.
Ho 61 anni e da sempre mi occupo di impianti di climatizzazione e di efficienza energetica. Sono stato presidente di AiCARR (Associazione Italiana Condizionamento dell’Aria, Riscaldamento e Refrigerazione), associazione culturale, non confindustriale, che conta più di 2.500 soci in Italia, equamente divisi tra professori universitari, liberi professionisti, tecnici del settore privati o alle principali aziende mondiali.
Ho pubblicato una decina di libri e oltre 350 lavori tra articoli e atti di convegni, sia in Italia che all’estero. Insomma, qualcosa d’impianti ne capisco.
Purtroppo in questi giorni frenetici ho sentito accuse infondate sugli impianti di climatizzazione, anche da illustri scienziati che hanno tutta la mia stima, ma probabilmente non hanno una profonda conoscenza dell’aspetto impiantistico.
Parliamo di ospedali, con una premessa: ancora ieri l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ribadito che non c’è prova di contagio tramite bio-aerosol, ovvero le piccole goccioline emesse respirando o parlando. Non ammettere l’evidenza, non vuol dire negare: significa piuttosto dire forse c’è, ma non si sa ancora quanto pesi sul rischio di contagio complessivo. Gran parte della comunità scientifica, infatti, presume ci sia, come in molte altre malattie virali e AiCARR, nei suoi tre documenti prodotti ad oggi suggerisce sempre di comportarsi come se questa forma di contagio ci fosse davvero.
Dando per scontato che ci sia una trasmissione via aereosol, nell’aria esterna la concentrazione di cariche virali è praticamente nulla: non a caso chiunque si occupi della pandemia suggerisce di ventilare il più possibile i locali.
Questo è il punto: perché negli ospedali è impossibile la diffusione del virus dai canali dell’aria? Perché negli ospedali, e nelle terapie intensive in particolare, si immette solo aria esterna, peraltro passando per filtri assoluti. Quindi, poiché l’aria esterna non ha praticamente cariche virali e, anche se le avesse, sarebbero filtrate, è impossibile la trasmissione attraverso i canali d’aria. So già le possibili obiezioni:
Prima obiezione. La legionella provocava ugualmente una forma di polmonite,si forma nei canali d’aria vecchi e con scarsa manutenzione. Risposta: non c’entra assolutamente nulla: la legionella è un batterio presente nell’acqua, che in certe condizioni prolifera in colonie. Nei canali sporchi queste colonie crescono in misura tale da diventare pericolose se non mortali per le persone. Della legionella si sa tutto ed è un pericolo ormai evitabile con un minimo di accortezza. Il CoVid 19 è un virus che ha vita breve al di fuori del corpo umano, perché muore dopo qualche ora o al massimo decina di ore. Di conseguenza, se anche qualche carica virale si depositasse sul canale, morirebbe in breve tempo.
Seconda obiezione. In alcune zone anche negli ospedali si ricircola l’aria. Esatto, accade ad esempio nelle sale operatorie, ma questo viene fatto proprio per ridurre le infezioni da batteri e nella ripresa dell’aria ricircolata vi sono filtri assoluti in grado di bloccare qualunque particella. La fonte di contagio non è questa.
Allora perché vi è stato e vi è tuttora negli ospedali un rischio di contagio? Perché gli impianti fanno il mestiere per cui sono stati concepiti. Sembra un paradosso, ma non lo è.
Cerco di spiegarmi meglio: in tutte le terapie intensive bisogna tutelare il paziente che, per definizione, è immunodepresso. Bisogna impedire che, aprendo la porta, l’aria sporca non filtrata entri all’interni dei locali dove giace il paziente, portando batteri, germi o quant’altro. Per questo si immette in quei locali tutta aria esterna trattata con filtri assoluti: aria pura di fatto. La terapia intensiva è mantenuta ad una pressione superiore di quella degli ambienti limitrofi: quando si apre la porta, l’aria esce e non non entra. Normalmente non c’è alcun rischio, perché l’aria che esce è di elevata qualità, pressoché pura, tranne la minima contaminazione data dalla presenza del paziente.
Ovviamente le cose sono diverse nei reparti infettivi, dove vi sono zone filtro in depressione rispetto agli ambienti limitrofi: si deve impedire che l’aria esca dalla porta e porti il virus in giro (a dimostrazione che in praticamente tutte le malattie infettive il virus viaggia anche con l’aria, nei locali chiusi). L’aria viene espulsa, passando prima per filtri assoluti, che trattengo tutte le cariche virali e che vengono periodicamente smaltiti in tutta sicurezza.
Forse adesso si comincia a capire cosa probabilmente è successo negli ospedali. Prendiamo il paziente 1: all’inizio, e non è colpa di nessuno, è stato ricoverato per una brutta polmonite. E’ stato certamente ricoverato in un reparto non per infettivi: a che scopo farlo se il CoVid 19 non era stato ancora diagnosticato? Per tre giorni l’aria contenente cariche virali è uscita dall’ambiente e si è diffusa in giro, infettando altre persone. Non è colpevole l’impianto: semplicemente il paziente è stato ricoverato nel posto sbagliato. Nessuno sapeva del suo contagio: la diagnosi è arrivata dopo grazie a una giovane anestesista insospettita dalla mancata reazione alle cure.
Questo probabilmente è successo in altri ospedali.
Sta succedendo tutt’ora? Probabilmente si: abbiamo esaurito da un pezzo le terapie intensive dei reparti infettivi e stiamo usandone delle altre, tutte progettate per lavorare in sovrapressione.
Qualcuno chiederà perché non si interviene e si inverte da sovrapressione a depressione. La prima risposta è perché non è scontato: sarebbe come voler trasformare una berlina in un fuoristrada. Non è né facile né immediato, soprattutto ad emergenza in corso.
Poi c’è un’altra risposta: anche laddove fosse possibile, bisogna capire come vengono ripartite le terapie intensive. Come spiega tutti i giorni chi si occupa del problema, non sono spariti i malati normali. Dobbiamo far convivere i contagiati dal ConVid con i cardiopatici, gli ustionati, i malati di tumore e quant’altro. Se per emergenza ci fossero malati diversi nella stessa zona di terapie intensive, metterla in depressione forse eviterebbe il contagio, ma condannerebbe a un gravissimo rischio di infezione da batteri tutti gli altri pazienti, ugualmente gravi. Mantenendo in pressione la zona, si garantiscono tutti i pazienti, perché non è possibile che l’aria entri dalla terapia intensiva dell’infettato in una adiacente, ugualmente in pressione, Però, così facendo, diffonde il contagio. Basta saperlo e comportarsi di conseguenza.
Non è colpa di nessuno. Siamo in emergenza e con l’emergenza si dovrebbe convivere.
La mia speranza è che in questo povero paese si smetta di cercare sempre un colpevole, spesso parlando a vanvera, e si cominci a lavorare seriamente per risolvere i problemi.”
Dott. Ing. Michele Vio